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Diritti Reali di Godimento

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29/09/2023

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IL DIRITTO DI USO ESCLUSIVO E PERPETUO DEL BENE CONDOMINIALE: REALTÀ E PERSONALITÀ DEL DIRITTO TRA CONFORMAZIONE E REGOLAMENTAZIONE DELLA PROPRIETÀ COMUNE*


Di Domenico Giurato



SOMMARIO: 1. L’uso esclusivo e perpetuo del bene condominiale: le ragioni del fenomeno. – 2. Lo stato della giurisprudenza fino alle Sezioni Unite del 2020. – 3. La sentenza delle Sezioni Unite n. 28972 del 2020. – 4. Gli argomenti delle Sezioni Unite. Critica: l’art. 1102 c.c. come norma derogabile (suppletiva e dispositiva). – 5. Segue: le ipotesi di uso non paritario previste dalla legge come norme non eccezionali. – 6. Segue: i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali. – 7. La possibile qualificazione del diritto di uso esclusivo e perpetuo come servitù prediale. Ipotesi di conformazione esterna della proprietà condominiale. Natura reale del diritto in oggetto. – 8. La possibile qualificazione come diversa ripartizione, all’interno dell’intera proprietà condominiale, della facoltà di godimento. Ipotesi di conformazione interna della proprietà condominiale. Natura reale del diritto in oggetto. – 9. La possibile qualificazione come mero effetto obbligatorio della regolamentazione condominiale. Ipotesi di mera regolamentazione della proprietà condominiale. Natura personale del diritto in oggetto. – 10. Conclusioni.


Nonostante il diverso avviso di una recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. civ., sez. un., 17 dicembre 2020, n. 28972), la clausola in forza della quale un bene condominiale risulti gravato da un “diritto di uso esclusivo e perpetuo" in favore di uno solo dei condomini, assai diffusa nella prassi, deve ritenersi valida ed efficace. L’effetto della clausola in esame, infatti, non è che quello di conformare, o comunque di regolamentare, la comproprietà condominiale; effetto che non deve ritenersi precluso all’autonomia privata, dacché né viola norme imperative né impinge contro i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali.



1. L’uso esclusivo e perpetuo del bene condominiale: le ragioni del fenomeno.


La clausola – contenuta nel regolamento di condominio o nell’atto da cui il condominio origina (quello che il codice civile, con voce ellittica ma efficace, chiama il «titolo»1) – la quale disponga che un bene condominiale (o anche soltanto una porzione spazialmente determinata di esso) sia gravato da un “diritto di uso esclusivo e perpetuo" in favore di uno solo dei condomini – ovvero, più correttamente, in favore della proprietà di una sola delle unità immobiliari di cui è composto il condominio – è assai diffusa nella prassi2. Le ragioni di una simile diffusione – che poi al tempo stesso esprimono la meritevolezza degli interessi sottesi alla stipulazione della clausola de qua – sono fondamentalmente due. Da un lato, le parti intendono conformare la proprietà condominiale, asservendone alcune parti a maggior vantaggio di talune unità immobiliari rispetto a talaltre, così arricchendo di specifiche utilità le prime rispetto alle seconde.

Dall’altro, vogliono regolamentare la proprietà condominiale, al fine di evitare contestazioni e liti tra i condomini; invero, l’esser preventivamente disciplinato l’uso dei beni condominiali – in particolare di quelli presenti in misura più scarsa rispetto al numero delle proprietà esclusive che compongono il condominio – svolge un ruolo assai importante nell’abbattimento del possibile contenzioso tra condomini, dacché esclude, a priori, tutte o quasi le possibili contestazioni circa la quantità e la qualità dell’uso che dei beni condominiali possa fare l’un condomino rispetto agli altri. Contestazioni che invece assai spesso sorgono allorché il godimento dei beni condominiali sia lasciato alla regola di default del «parimenti uso» prevista dall’art. 1102 c.c.

La clausola appare insomma perseguire due finalità: conformare e regolamentare la proprietà comune.

Finalità tipicamente ascrivibili al regolamento di condominio, segnatamente a quello c.d. contrattuale3.


Invero, sotto il profilo funzionale, e perciò a prescindere dalla sua formale collocazione all’interno di un vero e proprio regolamento di condominio, la clausola in esame sembra partecipare in ogni caso della natura di quest’ultimo; ciò in quanto, conformemente al disposto dell’art. 1138 c.c., essa non è che una (particolare) norma circa l’uso delle cose comuni4. Più precisamente, è una norma che, per le ragioni sopra evidenziate, sottrae il bene condominiale alla regola di default dell’uso indistintamente paritario, promiscuo e simultaneo, stabilita dall’art.1102 c.c. (disposizione che, come è noto, discorre di «parimenti uso»), sottoponendolo invece all’opposta regola dell’uso esclusivo. Regola che sovente appare idonea ad assicurare un godimento migliore, più ordinato ed efficiente, di taluni beni condominiali; soprattutto quelli (quali i cortili, i giardini, i lastrici solari, le terrazze di copertura, i ballatoi, le loggette, le zone antistanti le autorimesse,etc.) che per loro natura maggiormente si prestano ad un impiego quasi uti dominus.

Non a caso, è lo stesso legislatore che in più luoghi menziona la possibilità che alcuni beni condominiali, mercé lo strumento del regolamento di condominio, restino sottratti alla regola di default del «parimenti uso» e siano invece soggetti ad altre regole. Si pensi all’art. 1126 c.c., che discorre espressamente di «uso esclusivo» dei lastrici solari; si pensi, ancora, agli artt. 1122 e 1122-bis – disposizioni, peraltro, oggetto della riforma del 2012 – che parlano, rispettivamente, di «uso individuale», e della possibilità di «ripartire» l’uso dei lastrici solari e delle altre superfici comuni al fine dell’installazione su tali beni condominiali di impianti posti a servizio di singoli condomini. Per tutte queste ragioni, la prassi negoziale – in particolar modo la prassi notarile, conformemente alla funzione di adeguamento5 e a quella antiprocessualistica notoriamente ascritte alla funzione pubblica del notaio – fa largo impiego negli anni della clausola, reputandola idonea a garantire legittima soddisfazione negoziale ad interessi reputati assolutamente meritevoli di tutela7.



2. Lo stato della giurisprudenza fino alle Sezioni Unite del 2020.


Per le medesime ragioni, la giurisprudenza, almeno fino alla nota sentenza delle Sezioni Unite n.28972 del 20208 – sulla quale si tornerà diffusamente infra – non sembra dubitare mai della validità della clausola. Piuttosto, per un verso si impegna a delimitarne il possibile campo di applicazione oggettivo, valutando quali tipologie di beni condominiali, e in quale misura, risultino idonee a tollerare l’uso esclusivo e perpetuo del singolo condomino; per altro verso, si preoccupa di appurare di quale efficacia sia dotata la pattuizione de qua, concentrando l’attenzione anche sull’indagine in merito alla natura giuridica della particolare situazione soggettiva che, racchiusa nella formula negoziale “diritto di uso perpetuo ed esclusivo", fa capo al condomino beneficiario.

Quanto al primo profilo, si ammette, ad esempio, l’idoneità dei giardini e dei cortili condominiali ad essere oggetto della clausola in esame, trattandosi di beni condominiali la cui naturale funzione di recare aria, verde e luce alle singole unità immobiliari non è reputata incompatibile, appunto, con l’uso esclusivo e perpetuo in capo ad uno solo – o a taluni soltanto – dei condomini9. Correttamente, del resto, con riferimento a queste tipologie di beni condominiali, gli interpreti discorrono di beni comuni con «funzionalità plurima»10. Ancora ad esempio, quanto ai giardini, si afferma che l’uso esclusivo e perpetuo

di essi non consente comunque al condomino beneficiario di apportare modifiche o trasformazioni (ad esempio, apposizioni di coperture o costruzioni di verande) tali da compromettere le utilità che la res comune possa continuare ad offrire alle altre porzioni del condominio (quali appunto luce, areazione, veduta in appiombo, etc.)11.

Quanto al secondo profilo, particolarmente significativo è un precedente della Suprema Corte del 201712, seguito peraltro da numerose successive pronunce di legittimità e di merito13, che ha il pregio di fare chiarezza su alcuni aspetti relativi, appunto, alla natura giuridica di un simile “diritto di uso esclusivo e perpetuo".

In questa pronuncia, la Cassazione, nel riaffermare la piena legittimità della clausola de qua, statuisce che: i) a dispetto di una pur evidente assonanza nominalistica, l’uso esclusivo e perpetuo in esame nulla ha a che fare con il diritto di uso di cui agli artt. 1021 e ss. c.c. (non foss’altro perché il diritto di uso di cui agli artt. 1021 e ss. c.c. è necessariamente temporaneo e non è trasmissibile);  esso consiste piuttosto in un particolare riparto delle facoltà di godimento della res comune, diverso rispetto a quello previsto di default dagli artt. 1102 e detto particolare riparto è legittimamente perseguibile dall’autonomia privata, non solo perché l’uso esclusivo e perpetuo è espressamente contemplato in più disposizioni codicistiche, alcune delle quali, peraltro, opera del legislatore della riforma del 2012 (cfr. artt. 1126, 1122, 1122-bis c.c.) ma anche perché se al titolo è consentito escludere dalla proprietà comune taluni beni altrimenti condominiali per legge (arg. ex art. 1117 c.c.), a fortiori deve essergli concesso di sottrarre i medesimi soltanto al comune godimento, e cioè all’uso indistintamente paritario, promiscuo e simultaneo, stabilito di default dall’art. 1102 c.c.; iv) essendo l’effetto della regolamentazione condominiale, l’uso esclusivo e perpetuo conforma nel complesso la proprietà comune, ragion per cui esso è trasmissibile gli aventi causa dai condomini beneficiari della pattuizione de qua e, per converso, opponibile ai terzi (vale a dire agli altri condomini e ai loro aventi causa).

In definitiva, secondo questa giurisprudenza di legittimità – che peraltro fino alle Sezioni Unite del 2020 appare decisamente consolidata – il diritto di uso esclusivo e perpetuo in questione altro non sarebbe che l’effetto di una particolare disciplina regolamentare del condominio; disciplina regolamentare particolare in quanto: i) derogatoria rispetto all’art.1102 c.c.; ii) stabilita necessariamente nel titolo (ovvero, evidentemente, in quell’unico altro atto negoziale dotato della medesima vis conformativa, id est nel regolamento di condominio c.d. contrattuale); iii) avente evidentemente ad oggetto beni condominiali dotati di funzionalità plurima (nel senso sopra definito). Tuttavia, contro questa ricostruzione si pronunciano, expressis verbis, le Sezioni Unite del 2020.



3. La sentenza delle Sezioni Unite n. 28972 del 2020.


Sollecitate da un’ordinanza di rimessione14 mossa da un unico arresto giurisprudenziale difforme rispetto all’indirizzo sopra indicato15, le Sezioni Unite della Cassazione sono chiamate a pronunciarsi sulla questione (reputata di massima e di particolare importanza) «della natura del c.d. “diritto reale di uso esclusivo" di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale». Le Sezioni Unite, nel prendere posizione in merito alla questione, sovvertono l’orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass. 16 ottobre 2017, n.24301, enunciando il seguente principio di diritto: «“La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. ‘diritto reale di uso esclusivo’ su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dell’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi."».

Dunque, ad avviso delle Sezioni Unite, la clausola volta a costituire un simile atipico diritto reale di uso esclusivo e perpetuo sarebbe radicalmente nulla. Gli ermellini, tuttavia, precisano che resterebbe comunque «aperta la verifica della sussistenza dei presupposti per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo, in applicazione dell’art. 1424 c.c., in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (perpetuo inter partes, ovviamente) di natura obbligatoria». In altri termini, secondo le Sezioni Unite, la clausola potrebbe reputarsi ammissibile soltanto qualora sia volta a costituire non un diritto avente natura reale, ma un diritto avente natura obbligatoria, e dunque personale.

Il che – lo si anticipa – non sembra soluzione poi così insoddisfacente rispetto a quelle esigenze – sopra evidenziate – di conformazione e di regolamentazione della proprietà condominiale manifestate dalla prassi negoziale. Infatti, la personalità del diritto non sembra necessariamente escludere né la sua trasmissibilità agli aventi causa dal condomino beneficiario, né per converso la sua opponibilità agli altri condomini e ai loro aventi causa. 



4. Gli argomenti delle Sezioni Unite. Critica: l’art. 1102 c.c. come norma derogabile (suppletiva e dispositiva).

Il primo argomento impiegato dalle Sezioni Unite si fonda su un asserito limite di derogabilità dell’art. 1102 c.c. Al riguardo, la Suprema Corte reputa «essere dubbia la validità di un accordo interno tra i comunisti che, in deroga all’art. 1102 c.c., assegni l’uso esclusivo, anche se di una parte del bene comune, solo ad uno o più comunisti. Difatti, – si sottolinea – l’art. 1102 c.c., pone in evidenza un aspetto strutturale della comunione, il godimento, aspetto che, secondo un’opinione ampiamente accolta, non sarebbe suscettibile di subire modificazioni, beninteso sostanziali».

Invero, l’assunto appare discutibile già con riferimento all’istituto della comunione. E ancor più sembra esserlo per il condominio. Con riferimento alla disciplina della comunione, infatti, l’art. 1102 c.c., a ben vedere, non pare assegnare alla regola del «farne parimenti uso» il rango di norma inderogabile (o cogente) né peraltro sembra segnare alcun limite alla sua possibile derogabilità.

Piuttosto, l’art. 1102 c.c., che è norma certa mente derogabile – come riconosciuto dalle stesse Sezioni Unite in altro luogo della sentenza19 – sembra appartenere alla tipologia delle norme suppletive, o comunque dispositive. Essa, cioè, pone l’uso paritario, promiscuo e simultaneo come regula iuris, in assenza di – o comunque salva – una diversa regolamentazione della comunione21, ovvero – per dirla con la formula usata dal legislatore in altro e familiare luogo – «se non risulta il contrario dal titolo » (art. 1117 c.c.).

In questo senso, infatti, deve interpretarsi il sintagma «secondo il loro diritto», contenuto nell’art.1102 c.c., il quale, altrimenti, non avrebbe rilievo semantico né contenuto precettivo all’interno della disposizione; la quale, a quel punto, avrebbe ben potuto concludersi prima, senza necessità di ulteriori precisazioni. Oltre all’argomento testuale, poi, è ravvisabile anche un altro argomento, al contempo teleologico e sistematico. La ratio e la collocazione della norma, infatti, lasciano desumere che l’utilità – e quindi la funzione – dell’art. 1102 c.c. sia quella di risolvere i possibili conflitti fra comunisti in relazione all’uso materiale che della cosa comune essi facciano, non già di delimitare l’autonomia privata dei medesimi circa la regolamentazione di tale uso. La disposizione vuol porre una regula iuris laddove, per inerzia delle parti, essa manchi; non vuol precludere alle stesse parti – ponendo così un limite alla loro autonomia privata22 – l’adozione di una disciplina pattizia in deroga a quanto da essa disposto. La disposizione ha come destinatari i comunisti quali (co)utenti del bene, non quali parti del regolamento della comunione. Essa vuol disciplinare il loro agire, non il loro negoziare. Togliendo da altro luogo un’elegante dicotomia, è norma che incide non sul posse giuridico, ma sul licere.

Del resto, se l’art. 1102 c.c. ponesse davvero un limite all’autonomia privata, se cioè essa esprimesse una norma imperativa o condensasse un principio di ordine pubblico, non si vedrebbe per quale ragione quel limite dovrebbe reputarsi sussistente qualora le parti volessero valicarlo attraverso la creazione di un «diritto reale di uso esclusivo e perpetuo» e dovrebbe invece reputarsi insussistente se il loro intendimento fosse quello di scavalcarlo costituendo un diritto di uso esclusivo e perpetuo di «natura obbligatoria». Non si vedrebbe, cioè, come il giudizio di riprovazione espresso dall’ordinamento nei confronti di una disposizione negoziale che si assume essere lesiva di una norma imperativa, possa improvvisamente cambiare, mutandosi straordinariamente in un giudizio di approvazione, soltanto in ragione del fatto che l’effetto giuridico voluto dalle parti, in ogni caso difforme dal dettato dell’art. 1102 c.c., abbia natura meramente obbligatoria e non reale. In realtà – come si vedrà meglio infra – se il vero problema è la natura reale del diritto di uso esclusivo e perpetuo de quo, allora, a rigore, l’unico limite all’autonomia privata astrattamente rinvenibile sarebbe non il disposto dell’art. 1102 c.c., che è norma certamente derogabile, ma il principio del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali; altro argomento speso, in effetti, dalle Sezioni Unite, e sul quale si tornerà specificamente infra.

Ora è invece opportuno concludere il discorso relativo all’art. 1102 c.c. con particolare riferimento al condominio. Il ragionamento svolto sinora riguardo alla comunione in generale, infatti, appare ancor più valido se da quest’ultima si passi al condominio, dacché qui l’art. 1102 c.c., applicabile in virtù del richiamo operato dall’art. 1139 c.c., deve essere interpretato alla luce della particolare disciplina del condominio; disciplina che prevede, all’art. 1117 c.c., che il «titolo » possa derogare all’appartenenza stessa al condominio di alcune porzioni che altrimenti sarebbero naturaliter condominiali. Ebbene, se al titolo è consentito escludere dalla proprietà comune taluni beni, non può che essergli concesso di sottrarre i medesimi soltanto al comune godimento, e cioè alla norma dispositiva del «farne parimenti uso» portata dall’art. 1102 c.c. È il ragionamento a fortiori svolto da Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301; ragionamento che, invero, sotto questo profilo, appare decisamente condivisibile.

Infine, è opportuno fermare una riflessione in merito al presunto limite di derogabilità dell’art.1102 c.c. rinvenuto dalle Sezioni Unite, secondo le quali, pur ammettendosi la natura non inderogabile della disposizione de qua, all’autonomia privata non sarebbe in ogni caso consentita «l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni». A sostegno dell’assunto, le Sezioni Unite evocano gli unici due precedenti di legittimità sul punto25. Tuttavia, se dall’esame delle massime si trascorre a quello delle sentenze, appare evidente che entrambi i precedenti citati riguardano delibere e regolamenti condominiali adottati a maggioranza. Il che lascia desumere, a contrario, un ulteriore argomento a sostegno dell’ammissibilità dell’uso esclusivo e perpetuo se stabilito nel titolo o in un regolamento di condominio contrattuale (o almeno in una delibera unanime).

La regola del «farne parimenti uso» è perciò derogabile in toto, seppur col consenso di tutti i condomini.

Se pur essa segna un limite, non lo segna all’autonomia privata, ma all’autorità della maggioranza.



5. Segue: le ipotesi di uso non paritario previste dalla legge come norme non eccezionali.


Il ragionamento appare poi confermato da tutte quelle disposizioni, specificamente dettate in materia di condominio, che espressamente contemplano ipotesi di uso non paritario della res comune, e che espressamente definiscono quest’uso talvolta come esclusivo, talaltra come individuale (artt. 1126, 1122, 1122-bis c.c.).

Eppure, conformemente alle proprie premesse di partenza, le Sezioni Unite disconoscono questo argomento, qualificando le disposizioni in esame come eccezionali, dacché poste «in violazione della regola generale stabilita dal già richiamato art. 1102 c.c., nonché dei principi, di cui si parlerà più avanti, del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali». Secondo la Suprema Corte, le medesime disposizioni dovrebbero perciò reputarsi insuscettibili di applicazione analogica, ma soltanto, ove ne ricorrano i presupposti, di una cauta interpretazione estensiva (come nel caso, ad esempio, delle terrazze che fungano da copertura di un edificio, assimilabili in parte qua ai lastrici solari). Le disposizioni in esame, ad avviso delle Sezioni Unite, sarebbero quindi inidonee a convalidare l’assunto secondo cui competa all’autonomia privata un generale potere di stabilire usi esclusivi e perpetui in ambito condominiale. Tuttavia, a queste considerazioni possono formularsi due ordini di rilievi. Il primo attiene al rapporto tra le disposizioni in esame e l’art. 1102 c.c. Con riferimento a tale rapporto, non si vede come sia possibile che, nel derogare all’art. 1102 c.c., esse violino una norma o un principio generale, dacché, come si è dimostrato sopra e come riconosciuto dalle stesse Sezioni Unite, la disposizione incorpora una norma derogabile29.

Il secondo, invece, attiene alla relazione tra le disposizioni in esame e i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali. Con riferimento a tale rapporto, le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite coglierebbero in effetti nel segno se risultasse assodato che le modalità d’uso non paritario contemplate dagli artt. 1126, 1122 e 1122-bis configurino diritti reali atipici. Il che – come si vedrà infra – è probabilmente dato per scontato dalla sentenza; mentre invece è da dimostrare. Così come da dimostrare è che il diritto di uso esclusivo creato dalla prassi negoziale sul modello di quanto previsto negli artt. 1126, 1122 e 1122-bis e di cui si discute,pur dotato di perpetuità, trasmissibilità e opponibilità, sia in effetti un diritto reale e segnatamente un diritto reale atipico. Infatti, anticipando quanto si vedrà infra, l’uso esclusivo e perpetuo de quo potrebbe risolversi anche semplicemente: i) in un altro diritto reale tipico, e segnatamente in una servitù; ii) in una diversa disciplina reale della comproprietà  condominiale, vale a dire in una diversa regolamentazione – recte conformazione – interna di un diritto reale tipico (quale è, appunto, la comproprietà condominiale);ovvero iii) in una diversa disciplina obbligatoria della comproprietà condominiale, quindi in un effetto obbligatorio della regolamentazione condominiale, trasmissibile e opponibile ai terzi in uno con la regolamentazione condominiale medesima.

Ma prima di vagliare nel dettaglio le tre ipotesi appena enunciate, è necessario esaminare l’ultimo e principale argomento addotto dalle Sezioni Unite contro l’ammissibilità del «diritto reale di uso esclusivo e perpetuo», vale a dire quello relativo ai principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali.



6. Segue: i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali.


L’argomento più forte speso dalle Sezioni Unite a sostegno delle proprie ragioni è quello secondo il quale il c.d. “diritto reale di uso esclusivo" di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale violerebbe i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali. Come è noto, in ragione del primo, solo il legislatore, e non anche l’autonomia privata, può istituire figure di diritti reali; in forza del secondo, solo il legislatore, e non anche l’autonomia privata, può stabilirne il contenuto essenziale. In particolare, ad avviso della Suprema Corte, la creazione di una situazione giuridica soggettiva il cui contenuto consista nel godimento esclusivo in favore di un solo condomino di una parte comune dell’edificio, «privando gli altri condomini del relativo godimento, e cioè riservando ad essi un diritto di comproprietà svuotato del suo nucleo fondamentale, determinerebbe, invece, un radicale, strutturale snaturamento di tale diritto, non potendosi dubitare che il godimento sia un aspetto intrinseco della proprietà, come della comproprietà: salvo, naturalmente, che la separazione del godimento dalla proprietà non sia il frutto della creazione di un diritto reale di godimento normativamente previsto».

L’assunto, tuttavia, appare più suggestivo che fondato. E di ciò può trarsi conferma scendendo più addentro nell’analisi dei principi del numerus clausus e di tipicità, soprattutto se si guarda al problema da quella prospettiva, autorevolmente sostenuta in dottrina, che tiene i due principi logicamente distinti, attenendo il primo «alla esclusività della fonte, e cioè all’ordinamento che limita l’autonomia del soggetto», il secondo alla «determinazione del contenuto, cioè del «tipo» della situazione reale che il soggetto può presciegliere». Così, se l’efficacia della suggestione si manifesta con riferimento al numerus clausus, i dubbi sulla fondatezza emergono in relazione alla tipicità.

Riguardo al principio del numerus clausus, l’assunto delle Sezioni Unite appare in effetti ineccepibile.

È chiaro, infatti, che ogni creazione di un diritto reale ulteriore rispetto ai tipi previsti dal Codice è da considerarsi preclusa. Ragion per cui, non vi è dubbio che valutare la clausola che statuisca l’uso esclusivo e perpetuo del bene condominiale come disposizione volta a creare, in favore del condomino beneficiario, un diritto reale nuovo e sui generis, alieno rispetto a quelli disciplinati dall’ordinamento, significhi imputarle il peccato originale di violare il principio del numerus clausus, con conseguente nullità della medesima. È però con riferimento al principio di tipicità che la posizione assunta dalle Sezioni Unite appare perdere di consistenza, dacché tale principio non preclude in assoluto ai privati di statuire una disciplina – recte, una regolamentazione – del tipo. Ciò che è precluso all’autonomia privata, infatti, è la posizione in essere di una regolamentazione del diritto reale da modificare il tipo nei suoi tratti fondamentali. L'esame dell’interprete deve perciò volgere all’individuazione, la quale non potrà che avvenire attraverso l’analisi del dato normativo e degli interessi ad esso sottesi, dei limiti oltre i quali la disciplina pattizia non può spingersi.

Alla luce di quanto rilevato finora, l’indagine sembra dunque snodarsi secondo tre direttrici.

Posto che i principi del numerus clausus e di tipicità vietano ai privati, rispettivamente, di creare (nuovi) diritti reali e di conformarne il loro contenuto essenziale in maniera difforme da quanto previsto dalla legge, salvo che questo effetto di conformazione «non sia il frutto della creazione di un diritto reale di godimento normativamente previsto», o che comunque non sia l’ordinamento – esplicitamente o implicitamente – a consentire all’autonomia privata tale conformazione, non resta che indagare: i) se l’uso esclusivo de quo non sia sussumibile all’interno di una delle fattispecie di diritti reali stabilite dall’ordinamento (segnatamente,se possa qualificarsi come servitù); in tal caso, la proprietà condominiale verrebbe conformata, per così dire, dall’esterno, attraverso l’interazione con un altro diritto reale tipico; ovvero ii) se l’autonomia privata possa incidere sul contenuto reale del diritto del comproprietario – segnatamente del condomino – derogando all’art. 1102 c.c.; in tal caso, la proprietà condominiale verrebbe conformata, per così dire, dall’interno, attraverso una diversa distribuzione tra i condomini delle facoltà di godimento che nel complesso spettano al condominio; ovvero, infine iii) se esista la possibilità di collocare la qualificazione di tale uso, pur lasciandogli i connotati della perpetuità, trasmissibilità e opponibilità ai terzi – assai cari alle esigenze delle parti per come emergenti dalla prassi negoziale – al di fuori dei diritti reali e segnatamente tra i diritti di credito, magari tra i diritti personali di godimento; in tal caso, la proprietà condominiale non verrebbe conformata, ma soltanto regolamentata, attraverso la nascita, a carico di tutti i condomini, di un’obbligazione di lasciar godere in via esclusiva il bene condominiale al condomino beneficiario.



7. La possibile qualificazione del diritto di uso esclusivo e perpetuo come servitù prediale. Ipotesi di conformazione esterna della proprietà condominiale. Natura reale del diritto in oggetto.


La prima ipotesi ricostruttiva è creduta valida da tutti quegli interpreti che affermano la possibilità che le clausole che prevedono il diritto di uso esclusivo e perpetuo in favore di un solo condomino siano «inquadrabili nello schema della servitù: a favore dell’unità immobiliare in proprietà esclusiva cui tale uso è attribuito e a carico del bene condominiale (lastrico solare, terrazza di copertura, cortile o giardino) che ne è gravato». Qui l’autonomia privata svolge un’opera che potrebbe dirsi di conformazione esterna della proprietà condominiale; il che avviene attraverso l’apposizione su di essa di un altro diritto reale tipico, la servitù. Sul bene condominiale viene infatti posto un peso, consistente nell’uso esclusivo e perpetuo di esso in favore di una delle proprietà che compongono il condominio.

Le ricadute disciplinari di questa opzione sono facilmente intuibili. Qui il diritto di uso esclusivo e perpetuo sarebbe ovviamente un diritto reale, sub specie di servitù, con tutte le relative conseguenze in termini di tutele giudiziali di natura reale, e soprattutto in termini di perpetuità, trasmissibilità e opponibilità ai terzi. Il regolamento di condominio contenente la relativa clausola avrebbe natura certamente contrattuale e sarebbe soggetto a forma scritta ad substantiam (art. 1350 c.c.). Inoltre, se perfezionato in forma autentica o pubblica (art.2657 c.c.) sarebbe anche soggetto a trascrizione nei pubblici registri immobiliari (art. 2643 c.c.); trascrizione in ragione della quale diverrebbe opponibile ai terzi (art. 2644 c.c.).

Tuttavia, questa ricostruzione è espressamente cassata dalle Sezioni Unite: contro di essa militerebbe non tanto il principio secondo cui nemini res sua servit – essendo comunque rinvenibile un rapporto intersoggettivo in ragione del concorso di altri titolari sul bene comune – quanto l’altro principio, più volte ribadito in giurisprudenza, secondo il quale la servitù per sua natura «non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso, ancora una volta, nel suo nucleo fondamentale». A tal proposito, la sentenza precisa che «la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, se pur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente».

Il rilievo formulato dalle Sezioni Unite, però, pur condivisibile in astratto, non sembra trovare riscontro in concreto, almeno con riferimento alle più frequenti fattispecie emergenti dalla prassi, ove invece l’uso esclusivo e perpetuo grava su quei beni condominiali dotati di funzionalità plurima (lastrici solari, terrazze di copertura, cortili, giardini), i quali, pur gravati dalla servitù, continuano, per loro natura, ad offrire alla generalità dei condomini ulteriori e distinte utilità: strutturali, funzionali, estetiche; utilità che invero appaiono idonee a disinnescare il rischio, paventato dalla Suprema Corte, che la proprietà degli altri condomini rimanga priva di ogni utilità restando così – per usare le parole della medesima Corte – «un vuoto simulacro».



8. La possibile qualificazione come diversa ripartizione, all’interno dell’intera proprietà condominiale, della facoltà di godimento.

Ipotesi di conformazione interna. Natura reale del diritto in oggetto.


Il secondo itinerario astrattamente percorribile è quello di qualificare l’uso esclusivo e perpetuo in esame quale effetto di una diversa ripartizione interna della facoltà di godimento, spettante nel complesso alla generalità dei condomini, del bene comune. È la strada percorsa, in buona sostanza, da Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301. Qui l’autonomia privata spiega un’azione che potrebbe definirsi di conformazione interna della proprietà condominiale, attraverso la posizione in essere di una regolamentazione volta a disciplinare – si badi, senza diminuirlo, intaccarlo o menomarlo – il contenuto della comproprietà (condominiale) nel suo insieme; regolamentazione operante, nello specifico, sulla ripartizione interna tra i condomini della facoltà di godimento della res comune. Anche questa ricostruzione – lo si è visto – è sconfessata dalle Sezioni Unite. Una simile regolamentazione, conformativa sul piano reale del diritto di comproprietà di ciascun condominio, violerebbe, secondo la Suprema Corte, sia il disposto dell’art. 1102 c.c. che i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali. Tuttavia, anche contro queste conclusioni possono formularsi profondi rilievi; rilievi le cui premesse sono state già illustrate nei paragrafi precedenti.

In primo luogo, l’art. 1102 c.c. è norma derogabile, come si è visto supra. Ragion per cui, non può logicamente predicarsene la violazione, la quale invece è predicato logicamente possibile delle sole norme imperative. In secondo luogo, il principio del numerus clausus è certamente salvaguardato, poiché nessun nuovo diritto reale viene alla luce. La clausola del titolo o del regolamento che preveda l’uso esclusivo e perpetuo di un bene condominiale in favore di un condomino non comporta la nascita di una nuova situazione giuridica soggettiva in capo al condomino stesso – il che invece avverrebbe, ad esempio, se il beneficiario della disposizione fosse un terzo estraneo al condominio – ma comporta soltanto una “concentrazione" in capo al condomino beneficiario della medesima facoltà di godimento della res di cui egli è già titolare in ragione del suo diritto dominicale su di essa. Non nasce alcun nuovo diritto reale, che rimane essere la (com)proprietà condominiale nel suo insieme; sebbene ne resti mutata – rispetto alla regola di default posta dall’art. 1102 c.c. – la disciplina interna relativa al godimento della res tra i condomini. In terzo luogo, anche il principio di tipicità è preservato, dacché la facoltà di godimento, che certamente rappresenta una delle facoltà fondamentali della proprietà (e così della comproprietà), non è modificata nei suoi tratti essenziali. Non è, infatti, soppressa né rinunziata – e quindi la proprietà nel suo insieme non è snaturata – ma è soltanto concentrata su alcuni condomini rispetto ad altri; è distribuita in maniera non proporzionale; è esercitata, cioè, in maniera diversa rispetto alla regola di default stabilita dall’art. 1102 c.c. Ma sul principio di tipicità è opportuno fermare qualche ulteriore riflessione, essendo, peraltro, l’argomento più robusto addotto dalle Sezioni Unite contro l’ammissibilità dell’uso esclusivo e perpetuo in ambito condominiale. Invero, il principio di tipicità – come si è visto supra – non vieta tout court all’autonomia privata di disciplinare il contenuto di un diritto reale; vieta all’autonomia privata di modificarne i tratti essenziali.

Occorre perciò chiedersi se – come sostengono le Sezioni Unite – il materiale godimento del bene condominiale da parte di ciascun condomino sia o meno un tratto essenziale della comproprietà, e segnatamente di quella particolare specie di comproprietà che è il condominio. Alla domanda deve darsi risposta negativa, militando in tal senso argomenti di ordine testuale e logico.

Gli argomenti di ordine testuale sono due. Entrambi evidenziano come, nella materia de qua, sia l’ordinamento stesso ad autorizzare l’autonomia privata – e dunque il titolo o il regolamento di condominio contrattuale – a dettare la disciplina della comproprietà e del condominio. Il principio di tipicità è dunque pienamente rispettato, dacché qui è la legge stessa a riservare exspressis verbis all’autonomia privata uno spazio da occupare.

Il primo argomento testuale è evincibile dall’art.1100 c.c., ai sensi del quale la disciplina della comunione è quella degli artt. 1101 ss. c.c. soltanto se il titolo o la legge non dispongano diversamente.

Come è evidente, qui è la legge stessa che, sancendone la derogabilità, assegna natura non essenziale ai tratti tipici della comproprietà previsti negli artt.1101 e ss. c.c. Il secondo è dato dall’art. 1138 c.c., che prevede espressamente la possibilità, per il regolamento di condominio, di dettare le «norme circa l’uso delle cose comuni». Come si è visto supra, il fatto che nell’ipotesi di uso esclusivo e perpetuo queste norme siano di una intensità tale da incidere sulle facoltà dominicali dei condomini non cambia la loro natura di «norme circa l’uso delle cose comuni»; non incide cioè sulla loro sostanza, che resta immutata; influisce, piuttosto, da un lato sulla legittimazione ad adottarle e a modificarle, che non sarà dell’assemblea a maggioranza, ma spetterà all’insieme dei condomini uti singuli e, dall’altro, sulla loro opponibilità ai terzi, che non sarà quella tipica del regolamento di condominio assembleare ma quella – invero assai più problematica – del regolamento di condominio contrattuale. L’argomento logico, invece, è il seguente: se il materiale godimento della res fosse davvero un elemento indefettibile del diritto di comproprietà spettante al singolo condomino, allora non dovrebbero ammettersi neppure le ipotesi del c.d. «uso turnario » e del c.d. «uso frazionato», pacificamente ammesse, invece, dalla giurisprudenza della Cassazione e in particolare dalla stessa sentenza delle Sezioni Unite de qua. Nel primo caso, infatti, per il singolo comproprietario la facoltà di godimento è inesistente per tutto il lasso di tempo – recte, per tutto il turno – in cui godimento spetta agli altri comproprietari; ma l’inesistenza, anche solo temporanea, della facoltà di godimento è incompatibile con l’assunto che essa sia una facoltà indefettibile del diritto del comproprietario. Nel secondo caso, poi, la facoltà di godimento è sicuramente concentrata in favore di un solo condomino, con il solo limite che la cosa comune non venga «alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati; vale a dire con il solo limite che la cosa non subisca un processo di alterazione, trasformazione o appropriazione tale da impedire che in futuro – quindi, evidentemente, a seguito di una modifica del regolamento condominiale o comunque di un nuovo accordo tra i condomini – essa possa tornare ad essere oggetto del godimento comune originariamente praticato. Il che avviene identicamente nell’uso esclusivo, non potendo dubitarsi che anche il titolare di quest’ultimo non possa spingersi nel proprio godimento fino ad alterare o a trasformare la res,ovvero ad appropriarsene uti dominus.

La verità è che le formule «uso esclusivo», «uso individuale», «uso ripartito» e «uso frazionato» (evincibili dal dato normativo le prime tre, l’ultima dalla giurisprudenza) designano, in buona sostanza, lo stesso – ammissibile – fenomeno.

Concludendo, secondo questa ricostruzione, l’uso esclusivo e perpetuo del bene condominiale non è che una manifestazione, in favore del condomino beneficiario, della propria facoltà di godimento insita nel suo diritto reale di comproprietà sulla res comune, ovviamente, come conformata dal titolo o dal regolamento di condominio («secondo il suo diritto», potrebbe dirsi ritornando al testo dell’art. 1102 c.c.).

Quanto alle ricadute disciplinari di questa ipotesi ricostruttiva, in primo luogo può osservarsi che, andando a disciplinare il contenuto di un diritto reale (nella specie, la comproprietà condominiale), il titolo e il regolamento di condominio contrattuale contenenti la clausola de qua sono certamente soggetti a forma scritta ad substantiam (art. 1350 c.c.). Più problematici rimangono invece i profili della trasmissibilità e dell’opponibilità ai terzi. Non integrando una servitù, ma una mera ipotesi di regolamentazione – seppur conformativa – della proprietà condominiale, sembra mancare un appiglio normativo che consenta la trascrizione del regolamento, non essendo, l’ipotesi in esame, testualmente riconducibile a nessuna delle fattispecie previste dall’art.2643 c.c. A mio avviso, una possibile soluzione al problema potrebbe essere l’interpretazione estensiva dell’art. 2643, n. 3), c.c., disposizione che prevede la trascrizione dei «contratti che costituiscono la comunione». La disposizione potrebbe essere letta – analogamente a quanto previsto, ad esempio, nei numeri 2) e 4) dell’art. 2643 c.c. – nel senso che la trascrizione possa effettuarsi anche per i contratti che «modificano», e così anche per quelli che «regolano», la comunione, quali sono appunto i regolamenti condominiali contrattuali. Interpretare in  questo modo l’art. 2643, n. 3), c.c., consentirebbe di risolvere in primis il problema teorico dell’ammissibilità e degli effetti della trascrizione – di per sé, quindi non solo e non in quanto esso disponga delle servitù – del regolamento di condominio.

Permetterebbe, poi, di risolvere l’altro problema teorico, da sempre avvertito dagli interpreti, relativo alla – a questo punto solo apparente – superfluità  dell’art. 2643, n. 3), c.c. In ogni caso, resterebbero le difficoltà pratiche già evidenziate a proposito della trascrizione del regolamento di condominio contrattuale contenente delle servitù; ragion per cui, la soluzione operativa più prudente e sicura resta quella di richiamare e far accettare espressamente all’acquirente il regolamento di condominio in ogni successivo atto di acquisto.



9. La possibile qualificazione come mero effetto obbligatorio della regolamentazione condominiale. Ipotesi di mera regolamentazione. Natura personale del diritto in oggetto.


L’ultima strada percorribile è quella di riconoscere alla clausola che preveda l’uso esclusivo e perpetuo de quo mera efficacia obbligatoria. Qui l’autonomia privata si limita a compiere un’opera di mera regolamentazione dei rapporti tra condomini in relazione all’«uso delle cose comuni»; questa volta, però, non incidendo sul contenuto della comproprietà condominiale, ma obbligando i condomini a far godere il bene condominiale in esclusiva al condomino beneficiario, la cui situazione giuridica soggettiva appare perciò inquadrabile – o quanto meno assimilabile – a quella del diritto personale di godimento. Ragion per cui, il regolamento che intenda conseguire un simile effetto dovrà comunque essere adottato con il consenso di tutti i condomini (arg. ex art. 1108, c. 3, c.c., data l’evidente analogia, quanto agli effetti, alla concessione di una locazione ultranovennale). Dal punto di vista pratico, la soluzione presenta due importanti pregi.

Essa, infatti, appare idonea, da un lato, a soddisfare le esigenze manifestate dalla prassi negoziale; dall’altro, a “ricucire" lo strappo giurisprudenziale creatosi a seguito della più volte citata sentenza delle Sezioni Unite, le quali sembrano ammettere la concessione di un uso esclusivo e perpetuo «di natura obbligatoria». Invero, le esigenze della prassi appaiono soddisfatte, dacché una simile soluzione è in grado di regolamentare la proprietà comune in modo che l’uso in capo al condomino beneficiario sia: i) esclusivo, poiché i condomini sono obbligati a far godere il bene condominiale in via esclusiva al condomino beneficiario; ii) perpetuo, poiché una modifica del regolamento di condominio – o comunque del titolo – volta a sopprimerlo, non potrà esser effettuata senza il consenso dell’interessato (arg. ex art. 1138, c. 4, c.c., ai sensi del quale «le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli stessi atti di acquisto e dalle convenzioni»); iii) trasmissibile ai successivi aventi causa dal condomino beneficiario e per converso opponibile ai terzi, in uno con la regolamentazione condominiale (arg. ex art.1107, c. 2, c.c.), trattandosi, quella di lasciar godere il bene in via esclusiva al condomino beneficiario, di una obbligazione propter rem.

Contro questa ricostruzione – in particolare con riferimento al profilo dell’opponibilità – potrebbe obiettarsi che il regime posto dall’art. 1107, c. 2, c.c. è di regola invocabile soltanto per il regolamento di condominio assembleare e non anche per quello contrattuale. Tuttavia, al rilievo potrebbe replicarsi che, in realtà, l’impossibilità di invocare l’art. 1107, c. 2, c.c. deriva dalla natura degli effetti della regolamentazione condominiale, non dal fatto che essa promani del consenso di tutti i condomini o soltanto della maggioranza di essi. In altri termini, l’art. 1102, c. 2, c.c., non è applicabile ogni qual volta il regolamento conformi la comproprietà condominiale sul piano reale, non anche quando la disciplini sul piano meramente obbligatorio; più precisamente, è inapplicabile quando le «norme circa l’uso delle cose comuni» in esso contenute abbiano un’intensità tale da incidere sulla conformazione reale della comproprietà condominiale, restando applicabile allorquando esse rimangano nell’alveo della mera efficacia obbligatoria. E quindi a prescindere dalla circostanza che qui il regolamento di condominio, pur non avendo efficacia reale ma soltanto obbligatoria, necessiti, andando a creare un diritto (personale di godimento) di uso esclusivo e perpetuo, del consenso di tutti i condomini. Tuttavia, qualora non si intenda riconoscere alla disciplina regolamentare in esame il regime di opponibilità posto dall’art. 1107, c. 2, c.c., potrebbe pure indagarsi la possibilità di procedere alla trascrizione. A tal riguardo, a mio avviso, potrebbe invocarsi l’applicazione del combinato disposto degli artt. 2645 e 2643, n.ri 8) e 10), c.c. Dalla lettura di queste norme emerge infatti che può – rectius, deve – essere trascritto ogni atto che abbia l’effetto di attribuire un diritto personale di godimento di durata ultranovennale o indeterminata; il che è ciò che esattamente avviene con il regolamento di condominio che attribuisca a un condomino un uso esclusivo e perpetuo di natura obbligatoria. Certo, anche qui resterebbero le difficoltà pratiche già evidenziate a proposito della trascrizione del regolamento contrattuale contenente delle servitù. Pure qui, allora, la soluzione operativa più prudente e sicura per garantire l’opponibilità del diritto de quo parrebbe restare quella di richiamare e far accettare espressamente all’avente causa il regolamento di condominio in ogni atto di acquisto. Non resta che valutare le ricadute disciplinari della soluzione ipotizzata in questo paragrafo. Il diritto di uso esclusivo e perpetuo, avendo qui natura meramente obbligatoria, non consentirà al condomino beneficiario di esperire azioni reali a difesa del suo diritto (se non nei limiti in cui esse vengono eccezionalmente riconosciute in favore del titolare di un diritto personale di godimento63). Il regolamento condominiale che lo introduca dovrà essere adottato all’unanimità; quello che intenda sopprimerlo potrà essere adottato anche a maggioranza, purché con il consenso del condomino beneficiario.

Sarà ovviamente soggetto a forma scritta (ma arg. ex art. 1138 c.c., non ex art. 1350 c.c.). Non sarà invece necessaria la forma pubblica o autentica, non essendo necessaria, ai fini dell’opponibilità ai terzi, la trascrizione nei pubblici registri immobiliari, salvo che non si ritenga di dover procedere a trascrizione ai sensi del combinato disposto degli artt. 2645 e 2643, n. 8) e n. 10), c.c., come sopra ipotizzato.



10. Conclusioni.

In conclusione, dal punto di vista teorico, tutte e tre le soluzioni esaminate risultano legittime.

L’analisi a proposito della derogabilità degli artt. 1100 e ss. c.c., in particolare dell’art. 1102 c.c.; l’indagine circa il reale contenuto precettivo del principio di tipicità dei diritti reali; la riflessione intorno alla natura degli effetti obbligatori prodotti dalla regolamentazione condominiale; sono tutti elementi che consentono di ritenere l’uso esclusivo e perpetuo in ambito condominiale risultato certamente conseguibile dall’autonomia privata; e ciò anche oltre le ipotesi espressamente previste dagli artt. 1126, 1122 e 1122-bis c.c.  Dal punto di vista pratico, stante l’ultima giurisprudenza delle Sezioni Unite, l’ultima soluzione appare quella maggiormente prudente. In fin dei conti, essa soddisfa sufficientemente tutte le esigenze che la prassi negoziale manifesta quando reclama il c.d. “diritto di uso esclusivo e perpetuo" in ambito condominiale. Peraltro, proprio per questa ragione, non sembrano esservi dubbi sull’applicabilità del meccanismo della conversione di cui all’art. 1424 c.c. alle clausole già presenti nei titoli e nei regolamenti finora posti in essere; meccanismo del quale, in ogni caso, avrà senso discorrere se il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite resisterà nel tempo, non potendosi escludere, sulla questione, un (auspicabile) revirement.



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